07 giovedì Nov 2013

Come ti rappresenti il mondo?

Nel nostro vivere quotidiano, ci comportiamo sempre, anche quando non ne siamo consapevoli, in base a delle rappresentazioni mentali: “cortometraggi”, che contengono immagini, odori, sensazioni e giudizi per ogni situazione possibile. Elementi fondamentali che, volenti o nolenti, determinano in modo sistematico ogni nostra scelta comportamentale.

Quando decidiamo di fare una cosa piuttosto che un’altra, di andare in vacanza in una determinata località, di comprare un certo prodotto o di frequentare una persona, lo facciamo sempre in base a rappresentazioni create dalla nostra mente. Abbiamo rappresentazioni su tutto: andare a sciare, leggere un libro, vedere un determinato genere di film, andare a cena in un ristorante cinese, fare dei conti, riparare qualcosa. Quindi se decidiamo di andare a vedere un film d’azione o di mangiare in un ristorante giapponese, evidentemente lo facciamo perché di queste situazioni abbiamo rappresentazioni piacevoli. Se si pensa però alle infinite sfaccettature dell’esperienza e  alle diverse situazioni che si possono vivere nel corso dell’ esistenza, è immediatamente comprensibile come non si possa avere, nel proprio “database” mentale, una rappresentazione ad hoc per ogni tipo diverso di circostanza. Soprattutto rispetto alle esperienze che non abbiamo mai fatto. E allora come si comporta la mente in questi casi? Generalizza, ovvero tratta una situazione “sconosciuta” utilizzando il riferimento più simile che ha a disposizione. In effetti se ci pensiamo bene, nella nostra vita ci capita, per esempio, di imbatterci in centinaia di distributori automatici di bevande. Eppure non abbiamo bisogno ogni volta di imparare cosa fare per bere un bibita. Utilizzare delle procedure simili, per situazioni che ci appaiono più o meno dello stesso genere, è quindi un’ attitudine molto utile, soprattutto a livello pratico, ma nello stesso tempo può essere la fonte di molti errori cognitivi e di molte distorsioni percettive.

LE RAPPRESENTAZIONI DEL PIACERE, DEL DOLORE E DEL DOVERE

L’essere umano, a uno sguardo superficiale, può sembrare veramente bizzarro. A volte saprebbe cosa fare o vorrebbe fare delle cose, che poi però continua a rimandare. Vi è mai capitato di pensare, per giorni, che dovete chiamare un amico, senza riuscire mai a farlo? Vi siete mai trovati a continuare a pensare che dovreste mettere a posto qualcosa o finire un lavoretto di qualsiasi tipo, senza mai riuscire a passare all’azione? Se vi è capitato, non meravigliatevi, è molto meno grave di quanto si pensi: è solo una questione di rappresentazioni mentali sbagliate. Le rappresentazioni di ogni situazione, vengono organizzate, nella nostra banca dati mentale, secondo delle categorie ben precise che orientano le nostre azioni. Se, tornando all’esempio di prima, non riuscite a chiamare il vostro amico è perché senza accorgervene avete creato, di quella telefonata, una rappresentazione poco motivante. Probabilmente pensate a quella telefonata solo in termini di “buona educazione”, quindi in un certo senso di “dovere” e non di piacere. Se poi a un certo punto sarete riusciti finalmente a “sbloccarvi”, lo avrete fatto solo in base a nuove rappresentazioni, legate questa volta al piacere. Sarete passati insomma dal “dover fare quella telefonata” all’aver voglia di sentire quell’amico, magari per un fatto contingente che ve lo ricorda. Se in teoria pensiamo che ci potrebbe piacere andare a sciare, ma poi di fatto non ci andiamo mai, e non per motivi economici, evidentemente stiamo utilizzando una rappresentazione che è finita nella categoria del dolore. Magari, invece che usare la rappresentazione di noi che ci divertiamo in una bella giornata di sole, usiamo il “corto” di quella volta che siamo morti di freddo in seggiovia. E’ ovvio che con una rappresentazione del genere nessuno andrebbe più a sciare. Parimenti se abbiamo iniziato, per esempio, a scrivere un libro, per poi abbandonarlo a metà strada, probabilmente l’abbiamo fatto perché la situazione ci è scappata di mano, scivolando da una rappresentazione del piacere a una del dovere, o peggio ancora del dolore. A un certo punto, per esempio, potremmo aver iniziato a pensare che il nostro libro, una volta finito, non sarà pubblicato da nessuno. E allora,  perché finirlo?

 “VOGLIO FARLO” NON “DEVO FARLO”

 “Il mondo nella sua realtà è diverso da come lo vedete. Ciò che vedete non è il mondo, ma semplicemente una sua rappresentazione. Come qualsiasi altra mappa, anche la nostra mappa del mondo è unicamente una descrizione e quindi non è né del tutto precisa, né vera. Si tratta semplicemente di un modo utile, о meno utile, di pensare al mondo. Per rendere una qualsiasi cosa più utile, cambiate il modo in cui pensate ad essa. In altre parole, cambiate la vostra mappa del mondo”.

Richard Bandler da “PNL e Libertà”

Le rappresentazioni dei nostri pensieri si associano inevitabilmente a convinzioni e a sensazioni, che a grandi linee, possono abbinarsi all’idea del piacere, del dovere, o del dolore e della paura.

Come nell’esempio della telefonata o dello sci, moltissime volte una rappresentazione legata al dovere o al dolore può essere commutata in una nuova rappresentazione di piacere, che alla fine è il motore più potente che abbiamo a disposizione per entrare in azione. Scoprire che possiamo trasformare le nostre rappresentazioni, scegliendone di nuove più funzionali al nostro benessere, è una delle cose più entusiasmanti di un percorso di crescita nella comunicazione. Anche a partire dalle parole che utilizziamo. Il linguaggio,  molte volte a nostra insaputa, è collegato a un circuito cognitivo che in automatico porta a catalogare una situazione nell’area del dovere piuttosto che in quella del piacere. Provate a pensare alla differenza tra il pensare “Devo dimagrire”, piuttosto che “Voglio dimagrire”.

Il “Devo dimagrire” proietta un colore grigio. E’ collegato al dovere: una cosa imposta, che si subisce, che si deve fare. Vi sembrano sentimenti produttivi? Viceversa il “Voglio dimagrire” ha un colore solare. Racconta di un sogno, di progetti, di una decisione presa per migliorare la propria vita.

Imparare a trasformare le proprie rappresentazioni in modo tale da connettersi al piacere è un’arte che si apprende a poco a poco, ma che con la pratica può diventare un’abitudine automatica.

Così la paura di non farcela ad un esame, può essere trasformata nella voglia di superarlo. Il libro abbandonato a metà per paura che poi non venga pubblicato, può diventare il piacere, per se stessi, di finirlo e il sogno, per il futuro, di una possibile pubblicazione, e così via.

Per quanto riguarda, infine, quella sfera di piccoli e grandi doveri, che ognuno ha nella vita, che a volte risulta difficile commutare in una rappresentazione di piacere, possiamo sempre pensare che il piacere sarà rappresentato dal “toglierseli dai piedii”. Quindi, in ultima analisi, anche una scocciatura può essere immaginata come una cosa piacevole, se ci si concentra sul piacere che si proverà dopo averla risolta.

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